“Due morti e quattro cadaveri” di Raffaele Garzone: recensione
Il mondo ci usava perché eravamo in grado di risolvere un caso usando una testa di cento anni prima: qualsiasi contaminazione sociale avrebbe potuto influenzare il nostro pensiero.
Lakewood, contea di Jefferson, Colorado. Febbraio 2020.
Nella comunità Amish tutti vivono per un unico scopo: il lavoro.
La popolazione è poco avvezza nell’accogliere ciò che arriva da fuori la comunità. Lontani da ogni sorta di modernità, le trecento anime vivono faticando tutto il giorno e ostentando la rigidità dei loro dettami.
La seria serenità che scivola tra le terre del villaggio viene spezzata con il ritrovamento di sei cadaveri legati ad una trave a testa in giù dentro una stalla.
Si tratta di un grave omicidio plurimo e chi meglio di Sherlock Holmes accompagnato dal suo fedele amico John Watson sarebbe in grado di risolvere il caso?
L’arrivo della polizia e lo svolgere delle indagini non vengono bene accolti dalla comunità, ingabbiata nella reticenza e nell’ostilità verso chiunque provenga fuori dal villaggio.
Con una descrizione che si fonda nel sviluppare anche le più piccole caratteristiche, Raffaele Garzone ci conduce dentro un analisi psicologica degli abitanti per raggiungere e scoprire il vero assassino.
Raccontata in prima persona da Watson, la narrazione trattiene costantemente vigile il lettore, che cerca, insieme a Holmes e al suo amico, particolari rilevanti, sbagli commessi e una risoluzione del caso prima che venga letta nel successivo capitolo.
Ma cosa stupirà di più il lettore, una volta terminato il libro? Il nome dell’assassino o che tra le parole della realtà narrata si nasconda un ribaltamento della medaglia?
Ringrazio Raffaele per questa collaborazione e per avermi dato l’opportunità di leggere il suo libro, che ho trovato assolutamente brillante!🌻
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