“Il mio solo tormento” Rajab Abuhweish: recensione

Titolo: Il mio solo tormento
Autore: Rajab Abuhweish
Casa Editrice: Fandango Libri
Anno: 2022
Pagine: 77

Il mio solo tormento
le mie figlie costrette a lavori ignobili
la mia umiliazione
gli amici assassinati mi mancano
piango per il mio splendido cavallo
me l’hanno preso
ho bisogno dei miei cari
così lontani da me
per risollevare il mio cuore
ferito e solitario

Un canto di agonia si innalza tra le mura spinate del campo di El-Agheila. Un canto composto da trenta strofe recitate a memoria per poter portare avanti la realtà disumana che ogni detenuto è costretto a vivere. Non erano concessi carta e penna e l’unico strumento di trasmissione era la propria voce. Così Rajab Abuhweish, poeta, crea con le parole, con il poco fiato rimasto la chiara sequenza vissuta all’interno del campo di concentramento dove i detenuti erano costretti ad anelare la morte.

Il campo di El-Agheila nasce nel 1930 in Libia, nella Cirenaica sud-occidentale per mano dell’ingordo colonialismo fascista italiano. I libici ribelli, bambini, donne, giovani e anziani erano costretti a raggiungerlo divorando i chilometri a piedi. Una meta che molti non riuscivano a raggiungere e per chi invece le forze non le aveva perse, una volta dentro il campo spinato, tali forze venivano annientati dalle torture, dai lavori opprimenti, da una realtà che ha travolto la popolazione libica azzannando l’anima e frantumando tra i denti il cuore.

Il poema canta una volta la speranza di poter tornare su quelle terre in cui si è cresciuti per ricominciare a vivere. Canta la speranza di poter ricongiungersi con i propri cari, con le persone vicine e con gli amici. Canta la violenza contro gente indifesa, la gioia di divorare con le fauci insanguinate ogni briciolo di dignità, gettando sopra la pelle rimasta l’umiliazione che brucia come sale sulle ferite. Canta la voglia di smetterla, la preghiera che Dio possa richiamare a sé la propria anima ormai debole per poter resistere alle torture e alle ingiustizie. Canta il tormento di una popolazione confusa, una popolazione umiliata, una popolazione ridotta a nullità solo per un potere effimero.

Non c’è amore, non c’è giustizia, non c’è umanità.

E tra quei detenuti c’era Ibrahim al-Ghomary. Uomo colto sopravvissuto alla chiusura del campo nel 1934 che trascrisse il poema, che diede inizio alla trasmissione del canto per dare libertà a quelle anime per sempre intrappolate.


“Il mio solo tormento” è la testimonianza di quanto la cattiveria dell’uomo si possa spingere oltre. E’ lo sfogo dei sentimenti scaturiti dalla terribile realtà. E’ uno specchio di quell’Italia fascista che è stata la carnefice e giustiziera verso una popolazione innocente.
Ne “Il mio solo tormento”  c’è una storia dimenticata, una storia che deve continuare ad essere tramandata, un pianto, un altro errore perpetrato dall’umanità contro l’umanità stessa.

Ringrazio la casa editrice Fandango Libri e Riccardo per l’invio della copia cartacea.


La mancanza della consueta valutazione è la conseguenza della mia scelta di non deporre un numero di fronte a dei sentimenti che dobbiamo solamente avere il rispetto di leggere e custodire con riverenza.

Il mio solo tormento
questo campo abietto
e nessuno che ascolti i nostri lamenti
sono rare le persone giuste e leali
assente è la giustizia
e il male è una cosa comune


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